LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE SAI GIA'"

creata il 28 agosto 2010 aggiornata il 15 novembre 2011

 

 

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Che cos'è il tempo? Un mistero... privo di sostanza e onnipotente. Una condizione del mondo fenomenico, un movimento, legato e commisto all'esistenza dei corpi nello spazio e al loro movimento. Ma cesserebbe di esistere, il tempo, se non ci fosse il movimento? E cesserebbe di esistere, il movimento, se non ci fosse il tempo Prova a domandartelo! E' forse il tempo una funzione dello spazio? O viceversa? Oppure tempo e spazio sono la stessa identica cosa? Ecco un'altra domanda! Il tempo è attivo, ha un suo statuto verbale, "produce". Che cosa produce? Mutamento! L'ora non è allora, il qui non è il là, giacché tra i due c'è il movimento. Ma poiché il movimento con cui il tempo si misura è circolare e in sé conchiuso, si tratta di un movimento e di un mutamento che quasi alla stessa stregua si potrebbe designare come quiete e immobilità; l'allora, infatti, si ripete sempre nell'ora, così come il là si ripete nel qui. Dal momento che inoltre, neppure con gli sforzi più disperati si riesce a raffigurarsi un tempo finito e uno spazio limitato, ci si è risolti a "pensare" il tempo e lo spazio come eterni e infiniti... ritenendo evidentemente che ciò possa riuscire, se non perfettamente, almeno un po' meglio. Ma postulare l'eterno e l'infinito non implica forse la cancellazione logico-matematica di tutto quanto è finito, la sua relativa riduzione a zero? E' possibile nell'eterno la successione, e nell'infinito la prossimità? Come si conciliano concetti come distanza, movimento, mutamento, o anche solo l'idea della presenza di corpi finiti nell'universo, con le ipotetiche congetture dell'eterno e dell'infinito? Altre domande che puoi continuare a porti!

Thomas Mann, La montagna magica, Capitolo sesto

tempo decostruito

La logica – racconta Kant ­– uscì armata di tutto punto dalla testa di Aristotele come Atena dalla testa di Zeus. Trattandosi della dea della sapienza, c’è da supporre che quelle armi fossero epistemiche. La congettura non è peregrina, ai tempi degli Antichi Greci essendo la logica l’arma principale usata nel contenzioso tra le parti in tribunale. La Grecia non inventò il diritto, ma il contraddittorio sofistico a uso dei giudici. Non inventò il diritto né la professione di giurista perché, fino ad Alessandro, non ebbe un padrone che le imponesse la propria legge. Nel frattempo, come governo provvisorio dell’essere, la logica prosperava, nell’attesa del nuovo padrone che si impadronisse e dell’essere e della sua logica, costruendo quella cattedrale della classicità che è la logica ontologica. Infatti, dopo Alessandro, entrò in scena il meno effimero padrone romano, che ingessò la logica nel diritto, dove soggiornò a lungo, almeno fino a un paio di secoli fa, quando da giuridica, buona per il tribunale della ragione, divenne matematica, più adatta alle congetture scientifiche, grazie ai Boole e ai Frege.

In effetti, benché la storiella di Kant, mirante a giustificare il logocentrismo della filosofia, sia sostanzialmente falsa – dimentica, infatti, il moderno contributo degli Stoici alla logica dell’implicazione materiale, più debole di quella ontologica – contiene un briciolo di verità. Aristotele – non dimentichiamolo – fu maggiordomo alla corte di Filippo il Macedone. La sua filosofia doveva servire a corroborare il discorso del padrone. E il bravo servo Aristotele trovò la corroborazione definitiva, dotando la logica dell’arma letale, contro ogni avversario del padrone: l’eternità. Grazie alla logica, il padrone che conquistava il potere diventava per sempre padrone della verità dell’essere, almeno fino al prossimo padrone più forte, che scacciava il più debole.

La logica aristotelica è senza tempo. Le verità logiche sono eterne. Il ritmo ternario del sillogismo, che traduce la proprietà transitiva – se A è B e B è C, allora A è C –, non scuote più di tanto l’immobilità sincronica del principio di identità, secondo cui A è A, principio che a sua volta traduce la proprietà riflessiva. (1) La transitività realizza una breve temporalità, che presto si estingue nella conclusione sillogistica, e l’intero movimento deduttivo rientra nell’immobilità ontologica dell’essere che è. L’essere è alla morte (zum Tode sein), dirà Heidegger. In realtà l’essere è morto da sempre e per sempre.
Nell’accoppiamento logica/ontologia la logica classica è a servizio dell’essere, che a sua volta è al servizio del padrone. L’epistemologia che sostiene entrambe – la dottrina della verità e la dottrina dell’essere – è in modo disarmante semplice. L’essere e la verità si possono solo confermare. Dell’essere si può dire solo che è, perché dire che non è sarebbe contraddittorio. La verità non si può confutare, perché, se confutata, non sarebbe più vera. Inscatolata in questo rigido binarismo, la coppia coniugale di verità ed essere ha nel bene e nel male governato il mondo, senza mai essere seriamente contestata fino all’avvento del discorso scientifico.

Così semplificato, il discorso classico sarebbe perfetto e inattaccabile. Ma c’è un ma. Per essere al servizio del padrone non basta che la dottrina sia perfetta. Occorre anche che sia realistica. Deve poter agire sul mondo per comandarlo. Questa necessità introduce una piccola imperfezione nel sistema. Infatti, introduce nell’assetto atemporale della metafisica il tempo – il tempo della realtà mondana. La mossa è politicamente necessaria, ma si tratta di fare di necessità virtù. La virtus classica, la potenza generalizzata, nonché generica, si chiama “principio di ragion sufficiente”. Tutto è l’effetto di una qualche causa, a partire dalla causa prima, cioè dalla volontà del padrone.
Aristotelicamente parlando, non c’è moto corporeo che non sia prodotto dal moto di un altro corpo. Ciò
reintroduce la funzione del tempo, che diventa essenzialmente tempo deterministico, cioè tempo necessario all’azione della causa per produrre l’effetto – con qualche potenziale ma inevitabile contraddizione, per esempio là si dove postula l’esistenza di un motore immobile, che agisce da sempre muovendo il mondo senza essere mosso. Contraddizione necessaria, ho detto, perché il padrone non può essere mosso da altro, altrimenti diventerebbe servo di quest'altro e l'essere passerebbe di mano. Ribadisce questa verità qualche secolo dopo Hegel, che nella sua Fenomenologia inventa un po' prima di Lacan il matema del discorso del padrone: Der Herr ist das Bewusstsein für sich ("Il padrone è la coscienza per sé").

In questa sede, tuttavia, non dovendo scardinare un sistema, non mi interessano le contraddizioni, bensì le conseguenze della possibile reintroduzione del tempo accanto all’eternità. Sono loro che ci riguardano più da vicino, in quanto Essere e Tempo vanno di pari passo: insieme stanno e insieme cadono. Mi chiedo, allora: come sono andate le cose all'inizio della storia, quando ancora non si poteva parlare di avvento del soggetto? Come coesistevano tempo ed eternità in epoca prescientifica?

La soluzione classica consiste nell’introdurre la necessità delle leggi natura. Le nozioni di legge e di necessità sono le cinghie di trasmissione del logocentrismo dal mondo eterno delle idee – cioè dalla volontà del padrone – al mondo della vita quotidiana. Il mondo della vita obbedisce al mondo eterno della volontà padronale – la "vera" cosa in sé, secondo Schopenhauer – e tutto va bene, anche politicamente parlando. Il tempo della vita è sottomesso al “tempo” dell’eternità grazie al determinismo delle leggi di natura, con qualche spiraglio di libertà concesso alla natura imperfetta dell’uomo. La sincronia dell’eterno governa sostanzialmente la diacronia del tempo vissuto dall’uomo, permettendogli qualche peccatuccio ogni tanto, giusto per dargli l’illusione della libertà.

L’assetto logico-ontologico in versione determinista resiste agli attacchi degli Scettici fino all’avvento del discorso scientifico. A posteriori il discorso scientifico si dimostra il vero oppositore di successo del discorso del padrone, che ha dominato per tutta l’antichità, ultimamente in versione teologica medioevale. Ma la vittoria non è definitiva. Tuttora tutti, i servi non meno del padrone, resistono al discorso della scienza, tentando di asservirlo alla volontà dell’Uno. Forse meglio del padrone minaccia di riuscire a neutralizzare la scienza il capitalismo. Ma non è detta l’ultima parola. Finora la scienza si è difesa con un certo successo e qualche compromesso dalla volontà di ignoranza globalizzata.

L’attacco del discorso scientifico alla metafisica classica ha esordito con una manovra a tenaglia. Ha attaccato contemporaneamente il polo dell’essere e il polo del tempo. Essere e tempo sono i cardini dell’antica metafisica, come ha intuito Heidegger. Essere e tempo sono stati contemporaneamente indeboliti in epoca moderna, rispettivamente da Galilei e Cartesio.
Può sembrare paradossale affermare che Galilei decostruisca la nozione di tempo proprio mentre scopre la legge dell’isocronismo del pendolo, in pratica fondando la teoria della misura del tempo. Prima di Galilei la misura del tempo avveniva parcellizzando un flusso continuo e uniforme di materia, sostanzialmente nelle clessidre ad acqua o a polvere. Lo stesso Galilei usava precisissime clessidre ad acqua per controllare sperimentalmente la legge di caduta dei gravi. Eppure, l’attacco di Galilei alla nozione di tempo tradizionale è sostanziale ed efficace. Esso avviene in due modi: diretto e indiretto.

Indirettamente, Galilei desostanzializza la nozione di tempo, deprivandola della componente eziologica. Della vecchia metafisica Galilei conserva la nozione di legge naturale. Ma la legge di caduta dei gravi viene da Galilei stabilita senza far giocare la nozione di causa. Il moto uniformemente accelerato avviene come avviene, con velocità proporzionale rispetto al tempo, senza convocare la gravità come causa. Pesi diversi cadono nello stesso modo. Con questo fatto empirico Galilei estromette l’eziologia gravitazionale dal discorso. Anticamente il peso era una causa: i corpi pesanti cadevano verso il basso, i leggeri verso l’alto. Con Galilei questa fisica antropomorfa decade. Resta la legge senza causa che, al limite, porge il principio di inerzia. Su un piano inclinato il moto avviene secondo la legge che coordina gli spazi ai quadrati dei tempi impiegati a percorrerli. Ma se il piano diventa sempre meno inclinato il moto continua con accelerazione sempre minore fino a “convergere” a un moto costante (accelerazione nulla) senza causa. Incredibile: esisterebbe il moto di un corpo che non è mosso da un altro corpo! Ce n’era abbastanza perché la Curia di Roma intentasse un processo per eresia contro il Grande Pisano. Ne andava di tutta la metafisica classica e della teologia che l’adottava come preliminare alle proprie fanfaluche.

Ma Galilei attaccò anche direttamente la nozione di tempo. Si narra che abbia intuito la legge dell’isocronismo del pendolo vedendo oscillare un candelabro nella cattedrale di Pisa. In pratica Galilei misurò la durata delle oscillazioni attraverso il numero dei battiti del polso. Le oscillazioni duravano lo stesso numero di battiti, indipendentemente dalla loro ampiezza. Ma ecco il punto, che Carlo Rovelli fa notare nel suo saggio sulla natura del tempo, inviato al recente concorso FQXi e provocatoriamente intitolato Forget Time. Qual è il vero orologio: il polso o il candelabro? È il pendolo che misura le durate delle pulsazioni o il polso che misura le durate delle oscillazioni del pendolo? La risposta è che il tempo è relativo, quindi non esiste come cosa in sé. Serve a misurare la correlazione tra due fenomeni, nel caso le oscillazioni del polso e quelle del candelabro, posto che sia indifferente usare il tempo del polso o quello del candelabro come riferimento per la misura.
(Il fenomenologo, allora, si chiede: “Come è il tempo della vita? Il tempo non esiste come cosa in sé. La vita non esiste come cosa in sé. Allora?” Dopo Cartesio e dopo Darwin la risposta non è difficile. Il pensiero è un po’ di materia che si è separata e si è autonomizzata dal resto. La vita è lo stesso del pensiero, con l’incarico di prolungare la separazione nei discendenti. Il tempo è solo una misura della correlazione tra eventi che avvengono in parti separate di materia: il polso e il pendolo, l’anima e il corpo.)

Einstein attribuì correttamente a Galilei la prima formulazione del principio di relatività. La seconda fu quella di Lorentz, che aggiunse l’invarianza della velocità della luce. La terza fu la sua, che presupponeva l’equivalenza tra massa gravitazionale e massa inerziale. Quando si dice che la scienza procede per riduzioni successive… La scienza riduce le ingenue versioni antropomorfe della concezione del mondo – i filmini che il filosofo, ultimamente ilozoista, si proietta nell’home theater della propria torre d’avorio.

Il secondo attacco alla metafisica classica fu portato da Cartesio. Con il dubbio sistematico di sua invenzione Cartesio abbatté il primato dell’ontologia. L’essere non è più il dato primordiale che la metafisica accoglie nel proprio castello. L’essere è un risultato secondario e collaterale del sapere. Per essere qualcosa, l'essere dipende dal sapere. Se sai, sei. La mossa vincente di Cartesio fu di riconoscere nel dubbio un’attività epistemica feconda. Il dubbio, infatti, è l’espressione del principio del terzo escluso applicato al sapere. Tu dubiti perché non sai se sai o se non sai. Ma questo dubbio, diversamente da quello scettico, porta a una conclusione logica: l’esistenza del soggetto. Se sai, sei un soggetto perché sai. Se non sai, sei un soggetto perchè sai di non sapere. La negazione del sapere produce ancora sapere, quindi soggetto. Qualche secolo più tardi arriverà Freud a dire che nell’inconscio, che è un sapere, la negazione non esiste. (In effetti, esiste ma non sempre nega; per esempio, non nega se stessa quando si raddoppia). Come pure non esiste il tempo nell'incoscio. L'inconscio è sincronico. Così in Freud il discorso di Cartesio confluisce con quello di Galilei, anche se Freud non tematizza la confluenza e non si dichiara né galileiano né cartesiano. (Non cita mai Galilei; cita Cartesio solo a proposito del suo famoso sogno, dichiarando candidamente di non saperlo interpretare).

Ecco, allora, una prima conclusione, che illumina anche le considerazioni precedenti sul tempo. Essere e tempo non sono concetti primari ma secondari. Derivano dal nostro sapere. In un certo senso essere e tempo non sono oggettivi, ma soggettivi. È il soggetto che mette l’essere e il tempo nelle cose. Essere e tempo non preesistono nelle cose. Non sono oggettivi. Sono soggettivi. È la supposta rivoluzione copernicana di Kant.

Come concludere? Sembra facile concludere che quella del tempo, come già sospettava Agostino, sia un'illusione. Se non ci penso, so cos’è il tempo; se ci penso, non lo so più. La metafisica classica risolveva l’antinomia partendo dall’eternità atemporale dell’essere, dall’alto della quale calava tra le cose la funzione eziologica del tempo. La “metafisica” scientifica, invece, relativizza il tempo. Ciononostante guadagna alla fine la situazione atemporale, che la metafisica classica poneva all’origine di tutto. Freud arriva a concepire un inconscio senza tempo. Il fisico scrive equazioni quantistiche della gravità dove il tempo scompare quasi automaticamente.

C’è un aspetto apparentemente paradossale in questa inversione di tendenza (dall’eterno al tempo nell'antichità vs dal tempo all’eterno nella modernità). In assenza di tempo cronologico è possibile costruire una logica del tempo di sapere. È l’operazione che si tenta in questo sito, sfruttando l’intuizionismo di Brouwer. Il principio del terzo escluso, per secoli trattato come principio ontologico, per cui qualunque cosa può solo o essere o non essere, è in realtà un fecondo principio epistemico che genera sapere. Addirittura Cartesio, come già prima Socrate, trae sapere da esso, addirittura un sapere sull’essere.
Questo movimento epistemico avviene nel tempo, ma si tratta di un tempo soggettivo, che non si misura oggettivamente con gli orologi. Come chiamarlo? Tempo della memoria, come propose Avicenna? Non tanto paradossalmente, non essendo un tempo diacronico, potremmo chiamarlo tempo sincronico. Perché? Perché le conclusioni che si traggono da esso provengono dalla sintesi delle diverse evoluzioni diacroniche possibili. Come il direttore d'orchestra "sincronizza" i tempi dei singoli strumenti; come per determinare la probabilità di un evento, per esempio l’uscita di “testa” nel lancio di una moneta, si integrano tutte le possibili storie di lanci della moneta, così la logica epistemica intuizionista prevede come propria semantica l'insieme di tutti i modelli formati da un certo numero di stati epistemici – anche infinito – ordinati da una relazione di preordine – guarda caso – riflessiva e transitiva come la logica classica. In questa semantica la verità logica è la verità sincronica, cioè contemporanea, di tutti i modelli pluristato, cioè di tutte le diacronie. Per ironia della sorte il progetto aristotelico di logica atemporale, autenticamente riflessiva e transitiva, si realizza in senso proprio solo nella logica moderna, che elide il tempo cronologico e fa spazio al vero tempo, quello detto sincronico, senza convocare per questo la nozione religiosa di eternità.
Gli orologi, ormai, misurano un tempo fittizio, che serve da valore di scambio, per correlare fenomeni diversi, come il denaro serve a scambiare sul mercato merci diverse e di diverso valore. Si può dimenticare questo tempo, come volentieri dimentichiamo l’essere del padrone, che ci dominava con la metafisica classica. Almeno Giordano Bruno e Galileo Galilei non furono processati e condannati invano.

Sui rapporti tra diacronia e sincronia, come tra tempo e spazio, analisi e sintesi, ho preso posizione nella conferenza tenuta all'ETH di Zürich il 18 ottobre 2010, di cui riporto le du versioni italiana

Tra diacronia come tempo per comprendere
e
sincronia come momento di concludere

e tedesca

ZWISCHEN DIACHRONIE ALS ZEIT ZU VERSTEHEN

UND

SYNCHRONIE ALS MOMENT DES SCHLIESSEN

Per chi non è pratico dei divertissement lacaniani, lo stesso discorso sul tempo sincronico si può fare in teoria dei giochi, considerando lo spazio di tutte le successioni di partite (le diacronie) dove calcolare la strategia ottimale o minimax, cioè quella che minimizza le massime perdite (sincronia). Nè parlai 35 anni fa, in rapporto alla funzione della congettura analitica nel transfert, al Congresso dell'Ecole freudienne de Paris, tenuto a Roma nel novembre del 1974.

La congettura, il gioco e il transfert, o la verità, il sapere e l’atto

La conjecture, le jeu et le transfert ou la vérité, le savoir et l’acte

Di tutte queste intuizioni scientifiche sulla natura del tempo esistono in Freud frammenti sparsi per le 7000 pagine delle Gesammelte Werke, purtroppo mescolati alla paccottiglia eziologica di derivazione medica, presentata pomposamente come metapsicologia delle pulsioni con poco di scientifico e molto di mitologico. L’assenza di tempo nell’inconscio è un modo rozzo di presentare l’alternativa: tempo cronologico/tempo epistemico. L’eterno ritorno dell’identico è un modo ontologico, mutuato da Nietzsche, di presentare la riflessività della logica epistemica. Ciononostante non bisogna essere troppo rigidi nel criticare Freud, che offre improvvise genialità. Infatti, è proprio il discorso prescientifico sulla pulsione di morte quello grazie al quale Freud più si avvicina al discorso galileiano sul tempo relativo. Formalmente, se c'è ripetizione dell'identico, non c'è origine dei tempi, in quanto è l'origine stessa del tempo che si sposta in continuazione.

Intendiamoci, la pulsione di morte, intesa come causa finale, che orienta il funzionamento dell’apparato psichico sul livello omeostatico a più basso contenuto “energetico”, è da dimenticare. Tuttavia, il ritorno all’inorganico, cui la pulsione tende, restituirebbe il soggetto all’originaria non separazione tra soggetto e oggetto. Là, nell’inorganico, dove non esiste divisione tra soggetto e oggetto, non c’è più tempo, perché non servirebbe. Infatti, non occorre più correlare sistemi fisici diversi e separati, per esempio, il soggetto e l’oggetto, il polso e il pendolo. Là, nell’indistinzione, non occorre più che funzioni il sapere. E dove non funziona il sapere non c’è più né tempo né essere. Convenzionalmente si parla di morte. L’essere è alla morte e alla morte non servono né orologi né orari ferroviari né per arrivare né per partire. Per la scienza la morte è già arrivata all’essere prima che ci arrivasse il filosofo. La scienza non pensa – sarà anche vero – ma fa pensare il filosofo.

Note

* Questa pagina ha tratto ispirazione dal saggio di C. Callender, "Il tempo è un'illusione?", comparso sul numero 504 di agosto 2010 di "Le Scienze" pp. 57-63. (Torna su)

(1) I due assiomi – riflessivo e transitivo – testimoniano l’evoluzione del pensiero logocentrico greco, che passa dalla concezione statica dell’essere tipica di Parmenide, secondo cui l’essere è e il non essere non è (principio di riflessività), alla concezione analogica dell’essere, che si distribuisce tra gli enti in base al principio di transitività. Si aggiungano a questi due principi quello di non contraddizione e quello del terzo escluso e si ottiene la formulazione chiusa e completa della logica ontologica classica. (Che sarà perfezionata da Leibniz nella forma moderna, adatta ai … computer).(Torna su)

che tempi

Da ultimo una considerazione epistemologica sulla funzione del tempo nel discorso scientifico.

Si può pensare a una certa correlazione tra la coppia: verità di principio e verità di fatto, da una parte, e la coppia: validità locale e validità globale, dall’altra.
Per esempio, nella formula newtoniana F = ma il tempo interviene a livello locale, come variazione della variazione dello spazio nel tempo, ma non interviene a livello globale, essendo la formula valida al tempo t e al tempo t+k per ogni k. Secondo quanto pensava Newton, F = ma è una verità locale, tuttavia valida globalmente: un principio vero di fatto.

Corollario: il tempo non esiste in linea di principio; esiste di fatto. Nel discorso scientifico il tempo non esiste globalmente; esiste tutt'al più localmente.

Detto in termini comprensibili anche per chi abbia una formazione letteraria, la distinzione tra presenza e assenza di tempo, tra diacronia e sincronia, si può ricondurre alla distinzione tra le due dimensioni della verità: da una parte c'è la verità narrativa della letteratura, dall'altra parte c'è la verità argomentativa della scienza. L'interazione tra le dimensioni è possibile e definisce una direzione intermedia del vettore verità, che potrebbe essere tipica della scienza psicanalitica.

Concludo questa pagina con un riferimento favolistico, che risulterà familiare ai lettori di lingua tedesca. In una favola dei fratelli Grimm si narra della sfida tra l'istrice e il leprotto a chi corre più veloce. Il terreno di gara è un prato ai margini del bosco. I due partono, il leprotto supera facilmente l'istrice, ma quando arriva al termine del prato trova l'istrice che lo beffa con un "Son già qui" (Ich bin allhier, letteralmente "sono dappertutto"). Il trucco c'era, naturalmente: l'istrice aveva messo la compagna all'estremità del prato. Il leprotto diacronico fu così beffato dall'istrice sincronico. I grandi filologi Grimm conoscevano la differenza tra le due dimensioni della verità.

*

Con stupore registro nel discorso filosofico (ivi compreso il discorso del buon senso comune, che alimenta forme di filosofia "populiste") una forma di resistenza al discorso scientifico da me finora insospettata. La filosofia, e prima ancora la teologia, resistono alla scienza: questo si sa da tempo, perché è un fatto ormai storicamente acquisito. Ma oggi non si resiste più alla scienza come ai tempi di Galilei con processi pubblici, roghi e messe al bando; si resiste in modo più subdolo e forse più efficiente, senz'altro più generalizzata. È interessante stabilire come. Qui ci provo con una mia congettura.

Non è perché la scienza sia asservita al capitale, per esempio farmaceutico, o sia sfruttata per finalità belliche; non è perché la big science sia in effetti una big technology, la malfamata tecnoscienza, a servizio dell’ingegneria e della medicina e dei relativi finanziatori; non è perché la scienza sia oggettiva, quantitativa e deterministica, quindi non faccia spazio al soggetto, alle sue qualità immateriali e alla sua libertà; non è perché la scienza tratta di neutrini, di materia oscura o di misteriosi sequenziamenti del genoma, che non si incontrano dal verduraio, da cui si fa la spesa tutti i giorni; non è solo per tutte queste ragioni di fatto, per altro ben note e addirittura pubblicamente sbandierate, che i filosofi resistono alla scienza; ma è perché, per ragioni strutturali a me tuttora poco chiare, il discorso filosofico non si schioda da un approccio narrativo (letterario) alla verità, il quale nella scienza avrebbe poco corso – stando a certi filosofi, che oggi si definiscono nuovi realisti.

La verità filosofica, quella vera, si racconta temporalmente nella diacronia; non si costruisce spazialmente nella sincronia. Questo è il dogma di principio che il discorso filosofico contrappone al discorso scientifico, giustificando così al tempo stesso il non voler sapere di scienza e di sincronia, proprio tanto del filosofo quanto dell’uomo della strada. “Vi racconto come stanno le cose in teoria”, dice il primo. “Vi racconto come sono andate le cose in pratica”, rincara il secondo, che magari scrive su qualche quotidiano. Dai tempi di Erodoto la verità è la verità storica. La storia è la vera forma di conoscenza dai tempi di Tucidide a quelli del falso insegnamento hegeliano e del materialismo storico. (Quanti non ci hanno creduto?)

Naturalmente, la mia è solo una congettura. Sono stato indotto a formularla a partire dalla mancanza di echi che ha suscitato la mia conferenza di Zurigo di un anno fa. Fu una conferenza sulla reinterpretazioe in chiave sincronica del tempo di sapere. Prendendo spunto dal formidabile (benché decisamente fenomenologico) saggio di Lacan sul Tempo logico, tracciavo nello spazio (cubico) degli eventi soggettivi possibili – "io credo di essere bianco", "lui crede che, se io fossi nero..."– dei piani di simultaneità. Tenni il mio discorso al dipartimento di filosofia dell’ETH, un luogo prestigioso, ma evidentemente sordo all’appello della sincronia. Poche settimane dopo ripetei la stessa conferenza all’AIPA di Milano. A metà recita, un’attempata ma vispa signora mi interruppe con un perentorio e del tutto fuori contesto: “Ma dove va a parare, Lei?”
Non posso non chiedermi, allora, a quali idola fori o theatri abbia mancato di rispetto, contrapponendo la sincronia alla diacronia. Quali grandi metafore del pensiero corrente ho messo sotto i piedi? Sono tuttora curioso di venirlo a sapere. Sottoponendo la questione a uno psicanalista cosa mi risponderebbe?

Probabilmente, lo psicanalista mi spiegherebbe che la maggior parte di noi rimane fissata al momento in cui, da bambini, l’adulto ci raccontava favole, prima di andare a dormire. Le favole passano, ma resta fissata nella memoria la loro forma: la diacronia della narrazione, notoriamente ipnotica con il suo ritmo ripetitivo. (La ripetizione segnala la finitezza del soggetto; la finitezza ripara dall’angoscia dell’infinitezza dell’oggetto). Allora alla diacronia non si rinuncia; la sua potenzialità ipnotica viene addirittura elevata a garanzia di verità, naturalmente intesa come adeguamento dell’intelletto alla cosa, così come è narrata o testimoniata davanti al tribunale della ragione.

“Il tribunale della ragione”, questo è l’ultimo retaggio illuministico, codificato da Kant nella prima Critica, ma tuttora vivo e attuale (nell'interesse del potere). Neppure Derrida riuscì a smontarlo. Perciò, con buona pace di Lyotard e del suo post-moderno, non possiamo non continuare a fare i conti con le verità diacroniche, tipicamente con le verità narrate dai grandi miti o scritte nei grande libri fondatori della civiltà, la Bibbia o il Corano, magari per scoprire che una forma bastarda di sincronia, ridotta a sincronicità, offre stupefacenti nonché significative (mitologiche) coincidenze, tanto da formare i simboli della nostra civiltà, secono Jung. A Jung faccio, tuttavia, notare che la sincronicità delle coincidenze non equivale alla sincronia di struttura; l’azzeramento degli intervalli temporali non equivale ad assenza del tempo. Nello spazio-tempo della relatività ristretta, dove spazio e tempo non sono indipendenti, ma risultano mixati in forza della costanza della velocità della luce in tutto lo spazio-tempo, esistono addirittura piani (paralleli) di simultaneità diversi per osservatori diversi. Se l'evento A precede l'evento B per l'osservatore 1, l'evento B può precedere l'evento A per l'osservatore 2, che non sia situato nel cono di luce dell'osservatore 1; (in tal caso i due ossservatori non possono neppure comunicare l'uno all'altro la discrepanza). Tutto ciò è inquietante per il senso comune, che pure usa tranquillamente questo ritrovato scientifico, quando accende il navigatore sulla propria auto. Allora le verità sincroniche, è meglio isolarle in quarantena in qualche cameretta del nostro cervello; come una malattia infettiva, la sincronia costituisce un pericolo per l’assetto civile; potrebbe sovvertire il consueto modo di pensare narrativo. Galilei e le sue due nuove scienze possono attendere.

 

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